Basta poco, a volte, per rivivere momenti della nostra
recente storia agricola. Basta un incontro casuale, ritrovare vecchi amici, ed
ecco immergersi negli antichi mestieri di un tempo.
L’epoca.
Ci troviamo agli inizi del 1800.
Gli attori.
U trappitu, i
trappitari, l’asino
(per i più ricchi un cavallo), i portantini, le olive.
Il luogo.
Saracena, terra antichissima, edificata dagli Enotrii nel
2256 a.C., poi conquistata dai Saraceni (da qui il toponimo), posta alle porte
del Pollino, nel cuore dell’omonimo Parco Nazionale.
La storia.
Saracena, la “kasbah” del Pollino, caratterizzata dai vicoli stretti e contorti che si snodano tra
scale, scalini e “vutanti”. La citta dai mille scalini, molti dei quali, nei
tempi, sono stati percorsi a piedi, a volta scalzi, per portare un “tomolo” di olive
al frantoio. Scalini segnati dai passi dei tanti giovani che realizzavano così
le loro scarse pretese di un pasto caldo a fine giornata, scalini segnati da un
rivolo d’olio che dai sacchi via, via scorreva dapprima sui vestiti dei
portanti per cadere, infine, sul suolo sterrato, frammisto a ruvide pietre del
luogo.
E tra imprecazioni e dolore, fatica ed esecrazioni il sacco
arrivava su, in cima, nel frantoio padronale.
Sono queste le parole, appassionate, di Zi’ Domenico, di
quasi cent’anni, ultimo portantino e custode dell’antico frantoio “a sangue” di
Saracena, relitto archeostorico di un passato industriale non molto lontano. Ed
è grazie allo Zi’, che tutta questa storia si può ancora rivivere, nell’antico
borgo, attraverso i suoi racconti.
Colpisce l’amore con cui narra la sua pur difficile
gioventù, si infervora a parlare delle macine, in pietra locale, scolpita
direttamente in frantoio. Si entusiasma, Zi’ Domenico, a parlare di tecnologia
olearia ante litteram. Ci spiega come
avvenivano le fasi dell’estrazione dell’olio in frantoio. Le olive sversate
nella grande gramola, l’asino che fa muovere le macine, la frantumazione delle
olive ed il carico dei fiscoli, la
torre di pressione, la torchiatura, il sudore e la fatica necessaria per
stillare ogni singola goccia del prezioso oro verde. Fatica nel muovere l’
“ominu mortu”,
collegato alla pressa tramite una corda metallica, solitamente in acciaio,
grossa e resistente che, attorcigliandosi, si tendeva esercitando pressione.
E poi l’acqua calda, per separare e far affiorare l’olio di
oliva, e la pija,
magistralmente adoperata per raccoglierne l’olio. E tutto il resto via, le
sanse in un’altra stanza e l’acqua all’inferno, prima
di esser sversata per le vie.
Le parti da dividere: poco o nulla per chi raccoglieva e
portava le olive in frantoio, una piccola parte per chi organizzava
l’estrazione dell’olio e, tutto il resto, per il “padrone”.
Si era quindi autorizzati a “rubare”, raccogliendo di
soppiatto dall’inferno, le ultime gocce di olio lampante celato tra le fetide
acque di scarto, utile solo per rischiarare, con lucerne, le lunghe notti
invernali.
Il tempo si è fermato, si rimane affascinati dal racconto, apprendendo
così gli antichi mestieri legati all’olio e alle olive, quello del trappitaru.
Ma ancor di più affascina lui, l’ultimo dei vecchi portantini. Grazie a lui questa
storia, ancorata indissolubilmente alla terra, ancora vivrà in mille suoi nuovi
racconti.
Grazie Zi’ Micuccio.
Antonio G. Lauro
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Le macine in pietra |
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Il meccanismo di rimescolamento della pasta di olive |
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Zio Domenico e le fasi di lavorazione in frantoio |
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Il torchio e la vasca di ricezione del mosto olio (sotto) |
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Veduta d'insieme del trappitu. Sulla destra l'ominu mortu |